Attualità e Testimonianza con d.Giampietro 20/08/21

 

Dal Corriere della Sera del 17 agosto 2021

Quei corpi nel vuoto come vent'anni fa dalle Torri gemelle: l'epilogo inguardabile di un mondo sfinito

di Carlo Verdelli

È sicuro che non ce la farai, non hai speranze di restare vivo, nessuna. Qualsiasi futuro ti aspetti avrebbe almeno un piccolissimo margine di possibilità. Ma la cosa che stai per fare margini non ne ha, va contro la prima regola iscritta nel codice genetico: conservare la vita a ogni costo, contro ogni evidenza. Eppure sei arrivato a un punto che sta oltre il confine della nostra genetica, un punto nel quale ogni ragionamento o calcolo delle probabilità perdono valore. I fantasmi del presente che ti stanno travolgendo hanno la meglio. E allora ti butti da un grattacielo, sapendo che nessun angelo verrà a prenderti mentre precipiti, oppure ti aggrappi al carrello di un aereo in decollo con la certezza che le tue mani non potranno reggere la furia d’aria che ti costringerà a mollare la presa e a cadere come un sasso che si frantumerà a terra.
Karl Marx ha sbagliato quando ha previsto che la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia, la seconda come farsa. Nelle immagini che ci ghiacciano gli occhi in queste ore, c’è sì una storia che si ripete: non come farsa, però, ma come replica di tragedia. Le ombre delle persone che si lanciarono dalle Torri Gemelle si sovrappongono plasticamente a quelle dei corpi in caduta libera dalla carlinga di un grande aereo, grande come quelli che sventrarono New York. Appartengono, quei corpi, ai più disperati nella folla dei disperati di Kabul, che la mattina del 16 agosto hanno preso d’assalto l’ultima via di fuga, prima di arrendersi ai nuovi padroni dell’Afghanistan, anzi dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, come denominato dai talebani che ne hanno appena conquistato il completo e spaventevole possesso.
Mancava poco meno di un mese per rendere perfetta la chiusura di un cerchio tragico: centro di Manhattan, 11 settembre 2001; aeroporto Hamid Karzai di Kabul, 16 agosto 2021. Vent’anni quasi esatti. In principio, l’attentato che apre, sconvolgendolo, il secolo. In coda, adesso, l’atto finale di un pieno di guerre, di morti, di devastazioni, di illusioni, che è andato accumulandosi finendo come in un paradossale gioco dell’oca alla casella di partenza: con gli eredi di Osama Bin Laden, il leader massimo di Al Qaeda, che si riprendono quello che gli Stati Uniti e l’Occidente unito gli aveva sottratto per ritorsione.
Tutto il troppo che sta in mezzo tra inizio e fine di questo capitolo sconvolgente del mondo contemporaneo poggia su due piloni lontanissimi tra loro, separati da una distanza incommensurabile, eppure impastati dallo stesso cemento: esseri umani (americani i primi, afghani gli ultimi) che scelgono di morire prendendo sul tempo la morte, anticipandola, ingaggiando una sfida già persa in partenza col destino.
Non si sa ancora, e mai si saprà con certezza, quante sono state le persone che, sentendosi perdute, si sono gettate dai piani altissimi dei due grattacieli di New York. Il simbolo di tutte queste vite sospese in eterno è la figura di un signore che precipita a velocità inconcepibile, a testa in giù, una camicia bianca, le mani lungo i fianchi, una gamba ad angolo sull’altra. La foto che lo ferma per sempre è di Richard Drew. Diventa «The falling man», l’uomo che cade, probabilmente dalla Torre Nord del World Trade Center. Forse è un impiegato del ristorante «Windows on the World«, finestre sul mondo, centoseiesimo piano, le fiamme che divorano il palazzo sotto di lui, il panico che divora lui, che resterà senza un nome certo. Aveva una famiglia, dei figli, di che età, e quanti anni aveva lui, che bambino era stato, che programmi si era fatto per il suo futuro?
La marea di uomini, tutti maschi, che nella Kabul appena caduta corrono come se avessero perso il senso delle cose dietro un enorme U.S. Air Force già in marcia verso il decollo, con quelli più veloci che si arrampicano sui carrelli delle ruote ancora aperti e si avvinghiano come gechi ai minimi appigli della fusoliera, rappresenta già molto di più dell’annuncio delle morti in volo che poi verranno. È la raffigurazione di una specie di tentato suicidio di massa. Lasciarsi qualsiasi cosa alle spalle, compresa la propria casa e la propria vicenda personale, pur di non essere costretti a tornare in quella casa, nella vita ormai data per perduta, vita propria o dei figli, delle figlie, delle mogli, delle madri. Nella folla smarrita che si accalca per scappare disordinatamente da un domani sfigurato, c’è l’epilogo insostenibile, inguardabile, di una guerra dei vent’anni dove l’ultimo atto si ricongiunge al primo, demolendo i pilastri e il ponte su cui questo abnorme spreco di denaro, di vite e di civiltà ci ha fatto credere di reggere.
In una delle sue ultime interviste, il 14 maggio a Riccardo Iacona per Presa diretta, il fondatore di Emergency Gino Strada, che proprio in Afghanistan ha strappato decine di migliaia di vite straziate a morti certe, aveva già dato robuste picconate al ponte delle bugie e anche a quello delle illusioni. «Gli americani se ne vanno con una sconfitta, dopo aver speso più di 2 mila miliardi di dollari, e i talebani sono ancora lì. Gli afghani intanto sono più poveri del 2001, hanno avuto 4 milioni di profughi, un quarto della popolazione, più 150 mila morti, in prevalenza civili. Non si è speso per ricostruire un Paese ma per continuare una guerra. A cosa è servito? Zero». Il dottor Strada è morto il 13 agosto. Non ha visto gli afghani precipitare nel blu ma non ne sarebbe stato sorpreso.

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